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‘Earth To Dora’, il nuovo lavoro degli Eels raccontato da Lorenzo Mei

Qualche anno fa, una sera di luglio, dovevo andare a un concerto degli Eels, in un posto molto bello, l’anfiteatro romano di Fiesole. Aspettavo l’occasione da anni, e avevo preso un buon biglietto con grande anticipo. Invece alla fine non ci andai.
Tre giorni prima di quello show mi capitò per caso, proprio grazie allo Sky Stone & Songs che ospita questo pezzo, di conoscere Glen Hansard, e mi capitò di essere invitato a un concerto segreto per quaranta persone, una cosa irripetibile, il famigerato concerto del Malanima. E allora, a malincuore, rinunciai al mio primo incontro di persona con Mark Oliver Everett, l’uomo con la barba che sta dietro agli Eels, un po’ una via di mezzo tra una vera band e un progetto individuale mascherato da band. In un certo senso lo conoscevo bene, avevo tutti i suoi dischi, avevo letto la bellissima autobiografia, “Rock, amore, morte, follia”, che consiglio a tutti, anche a chi non sa chi sono gli Eels, perché è una prodigiosa spremuta di dolore, umorismo, amore, ironia, e forse aiuta a capire come tutto quello che capita nella vita di un artista riesca a finire nella sua arte. Insomma, si capisce che cos’è questa cosa della creatività, che è un po’ di più dell’urgenza di dover dire quello che sentiamo. Quell’urgenza ce l’abbiamo in tanti, poi però servono il talento e gli strumenti del mestiere. L’ultimo album degli Eels, “Earth to Dora” dimostra ancora una volta, che Mr E., come si fa chiamare Everett, li ha entrambi.

Io lo immagino da sempre come una specie di juke box un po’ consumato. Ha preso qualche botta di troppo, ha gli spigoli sbertucciati, il vetro è rigato e qualche lampadina è fioca, ma dentro c’è una magnifica collezione di canzoni. E il fatto è che è una collezione infinita, che si rinnova continuamente, eppure produce ogni volta pezzi che funzionano, che ti spingono a infilare un’altra monetina, e poi un’altra, e poi un’altra ancora. Mr E. è una fabbrica di riff, di clamorosi refrain che ti si piazzano in testa e non ce li togli per giorni. Diciamolo subito senza problemi, perché in questo caso non è un difetto ma un marchio di fabbrica: i suoi dischi e le sue canzoni, alla fine, si assomigliano un po’ tutti. Il linguaggio è spesso molto simile, i suoni lo stesso, il modo di cantare, la facilità con cui tutto gira nel verso giusto. Il fatto è che il numero di pezzi veramente buoni che questo tizio ha scritto e cantato è impressionante. Per me questo disco è, insieme a “The cautionary tales of Mark Oliver Everett”, uscito sei anni fa, il migliore di questo decennio.

Il modo giusto per assaggiare questo album è guardare il video con Jon Hamm, il Don Draper di Mad Men, che trovate in fondo a questo articolo, e ascoltare la canzone. Mi sembra un campione sufficientemente rappresentativo del mondo di Mark Everett.
La musica, ma anche il video, un modo di raccontare la vita lasciandola sullo sfondo, con i suoi piccoli e grandi disastri, e mettendoci davanti immagini buffe e strampalate. Sei lì che ascolti il tuo gruppo preferito, e intanto intorno a te va tutto a rotoli, qualcuno ci va di mezzo anche se non te ne accorgi, ti portano via gran parte delle cose a cui tieni, ma ti restano sempre un paio di dischi: puoi rimetterti le cuffie e mandare tutto affanculo un’altra volta, e ripartire.
A Mark ne sono capitate di tutti i colori: abbandoni, tragedie familiari, amori che si sfasciano, nuove famiglie che si formano e alla fine inesorabilmente vanno in mille pezzi. Da qualche parte però, in un stanzetta da cui evidentemente nessuno riesce a portarli via, restano gli attrezzi del mestiere (e il talento) e così questo macchinario umano che macina canzoni su canzoni, ritornelli su ritornelli, piccole invenzioni melodiche e sonore, continua a produrre bella musica.

Anche le parole, che si tengono a distanza dal dolore lancinante di “Electro-shock blues”, uno dei momenti più forti nella discografia, testimoniano nonostante tutto la ricerca dell’ottimismo, la volontà di camminare su un terreno accidentato senza farsi male, o almeno la speranza di far rimarginare le ferite: “Stiamo di nuovo bene?/Siamo tutti in via di guarigione?/Sono fortunato o coraggioso?/Sei più forte oggi?/Stiamo di nuovo bene? Sì, penso che stiamo bene” è il refrain finale di “Are we all right again?”.

Non che non ci siano traumi da superare, ma probabilmente non c’è la spietatezza per affondare il bisturi nella propria carne come in passato: “È un argomento doloroso/che preferirei non affrontare – dice “I got hurt”, che contiene reminiscenze di altre canzoni uscite dallo stesso plettro – Come sono arrivato qui, in un casino del genere?” E poi “Mi sono fatto male/E non stavo bene per niente/Mi sono fatto male, Signore/E mi sono fatto male sul serio”.

Tutto sommato basta guardare la copertina del disco per farsi un’idea. Un dipinto a olio che Everett tiene in bagno, la faccia di un clown, che come tutti i pagliacci sorride ma è infinitamente triste. Un saltimbanco che sale su un monociclo, corre attorno alla pista del circo, e alla fine precipita a terra. Lo guardi e ti diverti, ma poi vedi che ha addosso parecchie sbucciature, e sanguina. E non puoi non volergli bene, a quel rottame indistruttibile.

Alla fine a un concerto degli Eels ci sono stato. Nell’estate 2019, a Prato, in una serata divisa a metà: prima loro, poi il carrozzone meraviglioso e variopinto dei Flaming Lips. Ovvio che di fronte ai pupazzoni animati, alle centinaia di palloni rimbalzanti sulle teste del pubblico, agli unicorni che attraversano la platea e al fragore psichedelico di Wayne Coyne e soci, il giubbetto di jeans di E., il set della band, una parata di canzoni senza la minima concessione allo spettacolo, non poteva competere.

Mark però era in una buona serata, l’umore era alto, segno che era in uno di quei periodi in cui si ripara meglio dalle tempeste. Non faceva che dire: “Ragazzi, ma ci pensate? Dopo di noi ci sono i Flaming Lips! Ve lo giuro, I fucking Flaming Lips, cazzo”. E nella seconda metà della serata era lì, nel retropalco, a registrare video con il cellulare e a mandarli agli amici. Come un clown che da una fessura del tendone guarda i trapezisti, e gli passa un po’ di tristezza.

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