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‘Melancholia Hymns’, secondo album degli Arcane Roots sperimenta generi diversi: dal prog, all’elettronica, passando per l’alternative rock

Non si può certamente affermare che ‘Melancholia Hymns‘, il nuovo lavoro degli Arcane Roots sia un disco che annoi. Assolutamente no. [Leggi l’annuncio dell’album]
Il suono che la band formata dieci anni fa da Andrew Groves e Daryl Atkins propongono nel disco che fa seguito al fortunato album di debutto, ‘Blood and Chemistry‘ del 2013, è sicuramente un insieme di canzoni variegato ed eterogeneo.

Difficile inquadrarlo in un solo genere, sebbene la scena alternative sia quella che maggiormente si addice al gruppo inglese, se proprio volessimo dargli un’etichetta di qualsiasi genere musicale odierno.

Ma, come dicevamo, è quasi impossibile incasellare questa band. Basta iniziare l’ascolto di ‘Melancholia Hymns’ che apre con una spiazzante ‘Before Me’ che lascia presagire un disco dalle atmosfere molto scure e, in qualche misura, richiama i Sigur Ròs, muovendosi su atmosfere decisamente rarefatte e oniriche.

Ma ‘Before Me‘ è solo l’inizio di un viaggio lungo dieci brani che porta verso l’esplorazione di numerosi generi musicali, spiazzando l’ascoltatore o (molto più probabilmente) sorprendendolo piacevolmente.

Del resto ci si rende conto di questa tendenza degli Arcane Root già nella seconda canzone, ‘Matter‘ che riesce a cambiare strada almeno un paio di volte all’interno dello stesso brano, con un’intro molto soft e una lunga coda che riporta alle atmosfere della canzone di apertura.

‘Indigo’
, invece, riporta a scenari più familiari al mondo dell’alternative rock, con un brano più classico e che si avvale delle ottime qualità vocali di Andrew Groves che, nella parte centrale recita quasi un mantra, di nuovo spiazzando e trasformando quella che era iniziata come una canzone molto ‘radiofonica’ – nel senso migliore del termine – in qualcosa di più raffinato e meno ‘sentito’, ma che presenta forti influenze prog.

La quarta traccia, ‘Off the Floor‘ è forse una delle migliori dell’intero album. Qua l’influenza del progressive è assolutamente marcata, con l’intro di una chitarra che ricorda Steve Hackett, per poi indirizzarsi verso un prog-metal che trascina il pezzo verso la sognante e onirica ‘Curtains‘.

Se ‘Solemn‘ è una canzone di quelle che si fanno ricordare, ma si distacca dall’ambito prog delle precedenti, si torna verso atmosfere più rarefatte con ‘Arp‘ e con ‘Fireflies‘, mentre ‘Everything [All at Once’] si apre con una prepotente batteria che la trascina verso una direzione diversa dalle canzoni che l’hanno preceduta e avvia il disco alla sua chiusura. La nona traccia, infatti, rappresenta il pezzo più ‘duro’ dell’album, ma il ritmo ossessivo della batteria è perfettamente bilanciato con la voce di Groves, che gioca mirabilmente con il suo falsetto.

‘Half the World’ è forse il pezzo meno rilevante di tutto il disco: sebbene sia una canzone che si fa ascoltare e che, con grande probabilità, potrebbe essere un ottimo singolo da aggiungere a quelli già usciti, guardando all’insieme dell’album, risulta forse come il brano meno incisivo, forse il più debole.

Quello che è sicuro è che ‘Melancholia Hymns’ resta un disco interessante proprio perché non uniforme. La sensazione predominante, di fronte a questo secondo lavoro, è che la stessa band inglese abbia le idee non troppo chiare di quale genere musicale fare, ma che stiano sperimentando diversi generi, forse per trovare quello maggiormente a loro congeniale. Una sperimentazione che, però, dimostra come ci si trovi di fronte a musicisti versatili e, cosa ancor meno scontata, che riescono a dare un’ottima prova in tutti gli ambiti che attraversano con le loro canzoni.

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