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‘Musica di provincia’ di esterina: un inno corale urgente e necessario

“Si cantava sulle labbra, si ascoltava nella sabbia, quella musica italiana, le canzoni di esterina”
Uno giorno uno sciamano (mi) disse: Tutte le strade sono uguali non portano da nessuna parte, ma la domanda che ti devi porre è, questa strada ha un cuore? Se lo ha, la strada è buona e il tuo viaggio sarà lieto e finché la seguirai sarai una sola cosa con essa.
Era un indiano Yaqui (il suo nome è Don Juan ed è il protagonista di diversi libri a firma di Carlos Castaneda).

Se vi aspettate una recensione obiettiva passate pure ad altro, non la troverete di certo tra queste righe. Qui dichiariamo il nostro amore incondizionato. Siamo una sola cosa con esterina e le loro canzoni allietano il nostro viaggio.

Dunque, la domanda non è se le canzoni dell’ultimo album sono belle o brutte (ma detto tra noi sono bellissime), ma, se hanno un cuore. E questo lo possiamo scrivere a caratteri cubitali: si le canzoni di esterina HANNO UN CUORE.

“Musica di provincia” (e il titolo è già un manifesto), è un disco di canzoni a cuore aperto, che rilascia tutta la sua bellezza in un colpo solo, che ci fa sentire importanti malgrado il nostro essere “raccattati”, dove gli errori (i nostri, quelli degli altri ) sono “capolavori”. Un disco anche politico che ci esorta, in un’epoca che sembra volerci imporre un illusorio, quanto esasperato individualismo, all’atto più rivoluzionario che possiamo fare: porsi in ascolto. Dell’altro.  

Contro l’autoreferenzialità dilagante, il volgere lo sguardo, l’orecchio, il cuore, verso le vite degli altri, anche se lì “c’è troppo freddo” è atto di presenza e di consapevolezza, riconoscendo che non ci si salva mai da soli “No, non mi salverò e di sicuro non lo farò da solo, sento i tuoi passi e dico, sono davvero l’unico mio motivo”. Un atto che trasfigura l’Io e scandaglia le increspature dell’anima, le cicatrici aperte e quelle in via di guarigione, anche le proprie, in un gioco di specchi e di riflessi. “Come quando dentro mi ci piove, e fuori il sole a bruciarmi, risplende nelle vite degli altri”.

Nei testi ma anche nei suoni, che si sono fatti apparentemente più semplici, semplici di una grammatica di leggerezza, “Voglio avere una esistenza semplice una canzone da cantare” c’è un invito ad un canto collettivo che travalichi ogni barriera, che superi questa deriva, una esortazione a un inno corale (fosse anche stonato), urgente e necessario.

C’è uno sguardo nelle dodici canzoni dell’album, lucido, a volte commosso e commovente, che sembra volerti ricordare la complessa semplicità di quell’accordo che è la vita, meravigliosa nel bene, terribile nel male.

Nell’album, che si apre e si chiude con due strumentali (Open to Massarosa e Calafata, omaggi al territorio e alle sue realtà, colonne sonore di una umanità autentica partecipe e complice della “rivoluzione”) c’è La mia ragazza dolce e ipnotica cadenzata dal suono secco della batteria che si fa quasi filastrocca, da tempo la si sentiva nei live, ma qui trova un arrangiamento ed una esecuzione perfetta; c’è Se me lo dicevi prima voce chitarra e poco altro, (con il contributo fischiante di Tommaso Novi) gioiello fragile e prezioso, che ci spinge a riorientarci verso la nostra parte migliore; c’è la coraggiosa Questa sono io da annoverare tra le più struggenti del canzoniere esterinaÈ la tua storia, amarmi a memoria, è la tua partita, esser felice nella mia vita”; c’è Genova quel ragazzo, che sarà probabilmente singolo apripista dell’album.

E poi La vita degli altri, introdotta da tocchi delicati di tastiera che cadono e riverberano come gocce d’acqua in uno stagno limaccioso, come quello che circonda Rietto, sala prove e luogo dell’anima; Capolavori, Una roba facile, (robusto rock in un album fertile di ballate), canzoni che hanno abbandonato in parte, ma questo già lo si era sentito negli ultimi album, quell’ermetismo di cui erano intrise e si sono come asciugate (non tutte), si son fatte più immediate e nello stesso tempo più mature. Non meno magiche, non meno affascinanti, come un piccolo scrigno che ogni volta che viene aperto troviamo dentro qualcosa che ci appartiene. Nel profondo.

C’è Esisti te trainato, come molti brani del disco, dal gioco delle tastiere e con un testo quasi incontrollato, dal sapore dolcemente indecifrabile “Come si chiama il tuo sorriso prepotente? la faccia splendida di chi non chiede niente, prendi il mio gioco che ti fa allegria alle vene, l’anestesia, l’emoglobina e le sirene” non tutte appunto, si son fatte più vicine.

Ma su tutte si erge il dittico Le cose che da tempo ti dovevo e Amore splendido (quest’ultima con Maria Elena Lippi in perfetta sintonia con la band) due canzoni splendide, sintesi perfetta del suono esterina e vertici di un album davvero molto bello, matematica dell’anima che sottrae apparenze, torpore e bruttezze.

Meno post rock e più canzone d’autore dei dischi precedenti, poche distorsioni soniche, meno accelerazioni ed esplosioni, “Musica di provincia” recupera una più coesa forma canzone (questo forse in qualche modo imposto anche dalla formazione a quattro) non nuova, ma mai così accentuata, quasi sfrontata.

Una prova di maturità per quello che è il loro disco più diretto e completo, che ha sicuramente punti deboli (chi non ne ha), ma vanno cercati, scovati, stanati.

Nel lirismo di certi passaggi quasi prog con le tastiere in grande spolvero, che curvano il suono esterina al loro timbro, nel ritmico scandire di una batteria enorme, mai invadente quasi sottesa di malinconia, messaggera di un addio, nel pulsare denso di un basso che disegna i codici del profondo, negli arpeggi e nelle note di una chitarra sorgente, anima e corpo della band, nella produzione attenta, essenziale e impeccabile, vive una musica di provincia, che smaschera una abbondanza che ci inchioda e ci affama e che arriva dritta al cuore. La via che esterina ha intrapreso (e non certo da oggi) ha un cuore. Possiamo esserne felici.  

“La felicità non se n’è andata, vive tranquilla e smisurata, dentro agli occhi di chi l’ha scelta

La felicità non è fortuna, non serve andare sulla luna, ma dentro agli occhi di chi l’ha scelta”.

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