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Picciotto, «Non sono un ‘rappuso’, ma vengo dal megafono e dalla piazza»: il racconto della sua ‘TeRAPia’ in 14 ‘capitoli emotivi’

Si chiama ‘TeRAPia’, è pubblicato da Mandibola Records ed è il nuovo album di Picciotto. Non una ‘terapia’ convenzionale, quella che propone il rapper palermitano, ma una ‘terapia’ per l’anima, che punta i riflettori sulle ombre di questi tempi, usando una (finta) leggerezza per aprire spunti di riflessione in quello che è stato definito un ‘concept album’. Ma, anche qua, non un concept convenzionale – così come non lo sono i testi, così come non lo è la musica, così come non è convenzionale nemmeno Picciotto stesso – è un concept che si dipana attraverso le emozioni.

Picciotto, con ‘StoryBorderline’, aveva disegnato i ritratti di personaggi spesso scuri e controversi e, attraverso loro, aveva costruito uno storytelling che faceva da filo conduttore all’album. Per questo nuovo lavoro, però, ha scelto una strada completamente diversa, quella di una storia che si dipana attraverso le sensazioni, le emozioni e gli stati d’animo, che si possono seguire e, soprattutto, ricostruire attraverso i 14 brani che compongono l’album.

Ne abbiamo parlato con Picciotto – al secolo Christian Paterniti – facendoci accompagnare da lui nel viaggio che propone con questo album ed entrando così, almeno un po’, nel suo mondo, mentre lui passeggia per la sua Palermo.

«‘StoryBorderline’ – racconta – era stato un concept album dove in una macro-cornice di un’unica storia, avevo calato 12 personaggi, con uno storytelling che li collegava tra di loro. A questo giro, invece, ho parlato di cose un po’ più fluide, come gli stati emotivi dell’essere umano che ho provato a collegare, rappresentando tutte le varie sfumature di Picciotto che qua si mette a nudo, attraversa i propri capitoli concettuali e li riflette in quelli che sono desideri e frustrazioni collettive. Il filo rosso che collega i brani, da ‘Illusione’ a ‘Terapia Popolare’, sta in questo: cercare di essere meno didascalico, ma tentare di dare comunque un’atmosfera emotiva a ogni singolo brano».

E, così, Picciotto ci parla di «memoria – dice -, di dipendenza, di delusione, di amore, di integrazione, di accoglienza, di sogno e di incubo e di quel conflitto che, passati i trenta, si amplifica in ogni essere umano. Ecco, il collegamento sta in questo o, almeno, questa è la visione che ho provato a dare all’album. Mi piace definire i brani che lo compongono ‘capitoli emotivi’, perché rappresentano quello che attraversiamo anche nel quotidiano. ‘TeRAPia’ gioca molto anche sull’analisi, in questo caso mia, ma anche di ogni essere umano e che può essere più leggera laddove si riesca a dargli una cornice musicale, nonostante i temi siano abbastanza pesanti. Intanto però ho provato a lavorare su di me che sono caratterizzato dai mood cupi, rabbiosi e che, nei miei dischi precedenti, ero stato molto aggressivo. A questo giro ho provato ad assecondare il flusso della penna e provare a togliermi ogni tipo di sovrastruttura mentale e a mettermi a nudo. Man mano che lo scrivevo, ho scoperto che le cose che buttavo sulla carta, potevano essere riconducibili non solo a me stesso, ma anche al genere umano in toto».

Sei soddisfatto del risultato finale?

«Soddisfatti non lo si è mai. Questo è un loop che penso riguardi il 90 per cento di chi fa musica. Nella mia fattispecie, ancora di più: quando mi succede una cosa bella, non mi sento bravo. Alzo sempre l’asticella e fomento l’insoddisfazione: ci sto lavorando e sono in analisi da 6 anni, ma spero di modificare questo mio lato».

‘TeRAPia’, comunque, non è un disco rap o hip hop ‘classico’: siamo di fronte a un album con una proposta musicale molto trasversale, con più sfumature. Come definiresti la tua musica?

«Questo è esattamente quello che volevo. Io non vengo dall’hip hop. Uso il rap per mestiere, attraverso i laboratori di scrittura creativa che faccio nelle scuole e lo uso come mia valvola di sfogo, ma non sono un ‘rappuso’. Non sono uno che faceva le battle di freestyle, nonostante mi abbiano sempre affascinato molto. Non vengo da quel mondo lì. Vengo piuttosto dalle manifestazioni. Vengo dal megafono, dalle piazze. E in ‘TeRAPia’ ho messo tutta la mia indole musicalmente ‘bastarda’, che abbraccia ogni cosa che mi piace, a prescindere dall’etichetta musicale che le si dà. Uscire dalla mia zona di confort mi è piaciuto e mi è servito come stimolo: sarebbe stato molto più semplice andare verso sonorità a me più vicine, invece ho voluto provare a cantare, a spezzare le rime, a essere il più trasversale possibile.
Una cosa bella e che mi piace della mia carriera musicale è vedere che ai miei concerti vengono dai ragazzini alle famiglie con i passeggini: questo mi ha fatto capire di poter arrivare a diverse generazioni. C’è un rischio in questo: quello di non essere catalogabile, di non arrivare ai più giovani e perdermi i vecchi fedelissimi che si aspettavano il Picciotto combact. Però è un rischio che vale la pena correre
».

In un mondo in cui catalogare è la strada più semplice e, quindi, più percorsa, forse essere trasversali è la vera vittoria…

«Più che altro lo è cercare di raccontare la complessità delle cose. In un’epoca dove i social hanno reso la comunicazione sempre più esile, ci troviamo a essere connessi con tutti ma viviamo, secondo me, una profonda solitudine».

Questo ci porta direttamente a una delle canzoni più interessanti dell’album che sicuramente è ‘Hashtag la victoria’: qual è il tuo rapporto con le nuove tecnologie e più in generale con i social?

«Io sono un po’ ortodosso come formazione [ride]; sono un ex duro e puro degli Anni Novanta: ho avuto il primo profilo Facebook con la band tardissimo rispetto agli altri, nel 2012. Con il passare del tempo, però, mi sono reso conto che è fondamentale esserci, altrimenti rischi di essere un alieno che sta al di fuori di tutto quello che ha inglobato la comunicazione oggi. Quello che provo a raccontare in ‘Hashtag’ è quello che mi ritorna dal lavoro che faccio [operatore sociale a Palermo ndr] e l’ho fatto cercando di prendermi un po’ meno sul serio, scherzandoci su, cosa che, in realtà, non sono mai stato capace a fare bene, ma ci ho provato. Lavorando con i pre-adolescenti, mi rendo conto di quanto i social possano inficiare l’autostima e influenzare un ragazzo che, magari, non ha ancora gli strumenti per elaborare la propria personalità. A quel punto la tua personalità diventa il profilo, il personaggio che provi a imitare. L’autostima viene misurata dai ‘like’ che prendi, così come la tua depressione se non li prendi. Ecco che socialmente questo rappresenta un grosso pericolo. Senza appesantire la questione, ho provato a raccontarlo in ‘Hashtag la vittoria’, dove, peraltro, gioco con uno slogan a me molto caro e che non voglio assolutamente dissacrare. Purtroppo, però, anche la politica, che resta il mio amore più grande, si è spostata su una tastiera, cosa che mi dispiace molto. Dobbiamo comunque provare a sensibilizzare le persone e farle uscire dal proprio orticello. A me fa tristezza quando vedo le piazze semideserte dove, i pochi ragazzi presenti stanno davanti a uno schermo. Non lo dico per sembrare un vetero-comunista, ma lo dico proprio perché questa cosa fa male. Mi rendo conto che tutto questo ha ammazzato la socialità in un’epoca che, per contro, viene definita social».

Nell’album ironizzi spesso sulla musica italiana: una frecciatina a Calcutta qua, una ai gruppi indie là, ma cosa pensi tu della scena italiana di oggi?

«Su Calcutta in realtà sono stato un paraculo: quello che mi faccio è un complimento [ride]. A me non piace Calcutta, ma ho due figlie e quella di 3 anni se sente un suo pezzo lo memorizza in maniera bestiale: questo significa che arriva e che comunica bene. Perdonami il paragone, ma è un po’ quanto arriva Salvini con il suo tipo di comunicazione. Fatto l’apprezzamento per l’efficacia e la capacità di comunicare, la cosa che mi manca sono i contenuti. E questo mi dispiace molto. Purtroppo, vedo la musica italiana sempre più povera. Va detto che il mainstream è sempre stato volutamente povero di contenuti, perché è più facile tenere gli ascoltatori a bada parlando della storiella d’amore. Per carità, anche quella ha un suo spessore, ma non ci si può limitare a questo. Mi sarei aspettato qualcosa di diverso da quando il rap è diventato il genere che va per la maggiore, che è di massa e che influenza il mercato. Pensavo che i miei colleghi rapper – visto che ci ricordiamo da dove veniamo, se ce lo ricordiamo – avessero una presa di posizione più netta. Mi chiedo – e non ho la risposta – quanto la fascinazione del quartiere, del degrado, l’ostentazione del rapper duro che viene dalla strada, la droga, le puttane, i macchinoni e tutta questa roba qua, sia uno scimmiottamento e quanto sia originale, perché, in realtà, è tutto già detto e sentito negli Anni Ottanta, per quanto mi riguarda almeno. Forse sbaglio e non riesco a scindere la mia professione dalla mia passione, ma sento sempre una forte responsabilità quando prendo la penna o il microfono in mano. Non posso non pensare a chi mi sta ascoltando e il messaggio che gli sto mandando. Vero è che se guardi un film che parla di mafia, non necessariamente ti deve piacere diventare un mafioso, però qualcosa dentro te lo lascia, soprattutto nei più piccoli. Gli esempi che stanno uscendo, semplicemente non mi piacciono. Non mi ci rivedo io, ma ho paura che ci si riveda mia figlia. E questa è una cosa che va in qualche maniera contestualizzata, spiegata e accompagnata, non solo per una forma di censura, ma per aiutare la controparte a prendere quanto di buono ci possa essere e non assimilare la parte negativa».

Ti piace la trap?

«Per me la trap è una figata: ‘Illusione’ il singolo che ho tirato fuori qualche settimana fa, è su un beat trap. E’ un genere che mi permette di cantare e di avere un flow decisamente molto più vario. Antropologicamente nasce come una musica di protesta, sia in Francia sia negli Stati Uniti e mi sta strabene. Quello che viene declinato in Italia, come ogni fenomeno, diventa, secondo me, una pantomima. Il vero problema non è la trap, ma sono i trapper. Mi dispiace che ci sia molta povertà di contenuti e si stia usando un’arma in nostro possesso a cazzo di cane, se mi perdoni l’espressione».

Quanto la musica influenza il tuo lavoro e viceversa?

«E’ imprescindibile. Diciamo che Picciotto è nato come naturale conseguenza di Christian che di lavoro fa l’operatore sociale allo Zen, a Borgovecchio, a Brancaccio e nei quartieri meno agiati di Palermo».

E quanto la musica ti aiuta nel tuo lavoro?

«Io lo vedo sugli altri e su me e ho provato a raccontarlo in ‘TeRAPia’. Sugli altri mi rendo conto che oggi, come ho detto quando sono stato premiato per Musica contro le Mafie, abbiamo a disposizione due grandi armi senza colore, forse le uniche senza colore, la musica e lo sport. E le dobbiamo usare bene. So per esperienza, diretta e indiretta, di quanto possa essere salvifica la musica. Lo faccio con i ragazzi di Drop Out che ho portato a conseguire la licenza media rappando delle tesine: ho cioè sfruttato il rap poiché potevano studiare soltanto a memoria, perché quegli erano gli strumenti che avevano. Il rap, la rima, arrivano prima e ti fanno memorizzare il contenuto. L’ho fatto con i ragazzi del carcere minorile e ho visto uno di loro diventare un fisarmonicista tra i più bravi a Palermo. Certamente non prendi tutti, prendi una minima percentuale di ragazzi, ma riesci a instillare una riflessione, un margine di alternativa in quei contesti nei quali l’alternativa spesso di viene imposta dalla mala o peggio ancora, dalla precarietà esistenziale e, questo, secondo me è un compito sia sociale che politico».

Cambiando discorso, quanto è importante per te la parte grafica e visuale del tuo lavoro?

«Oggi raccoglie un 80 per cento. Mi trovi in una fase in cui sto spendendo molto di più di quelle che sono le mie entrate sui video, sull’estetica e sull’immagine, proprio per cercare di renderla quanto più fedele alla realtà e qualitativamente alta. Visto che il mercato è saturo, la concorrenza è infinita, riuscire ad emergere con testi che hanno comunque una loro difficoltà e non sono fruibili per tutti, non è certamente facile. L’immagine, quindi, gioca a tuo favore. Su questo tema, proprio qualche giorno fa mi sono imbattuto in una polemica su Massimo Pericolo, rapper anche bravo secondo me nel raccontare determinate cose, ma troppo ridondante su alcune tematiche. Ha fatto quattro canzoni che parlano del carcere, un’esperienza che posso capire l’abbia traumatizzato, ma quando ne parli tanto, così come, ad esempio della cocaina e nei video tieni accanto a te armi e psicofarmaci o fumi crack, stai ostentando un’immagine che ti dice ‘per riuscire ed emergere devi passare di lì’: ecco a me questa cosa fa un po’ girare i coglioni».

Cosa pensi delle manifestazioni per l’ambiente che si sono svolte in tutta Italia?

«Non sono potuto andare alla manifestazione di Palermo per questioni lavorative e musicali ma sono stato lì con il cuore. Fuori da ogni retorica, penso sia veramente bello quello che è successo, perché ho una grandissima fiducia. Io lavoro con i più piccoli, proprio perché domani saranno loro ad avere il peso di questo mondo sulle spalle e, quindi, ne devono avere la consapevolezza. La cosa che mi fa incazzare è che questa generazione ha forse perso un anello della catena che noi abbiamo avuto e, cioè il privilegio di avere quelli che si erano fatti gli Anni ’70 e ‘80 in Italia e che, quando ero più piccolo, mi affascinavano nelle discussioni. Oggi c’è sempre meno confronto, sempre meno discussione reale e ci sono molti meno padri putativi politici che tendono la mano ai più giovani. Penso che manchino queste figure perché, a loro volta, si sono stancati o alienati o hanno fatto altre strade. Ma non è colpa dei più giovani se questo mondo va a puttane: c’è un concorso di colpe. Quello che è successo il 15, mi fa ben sperare, anche se in minima percentuale, che qualcosa si possa muovere».

Tornando alla musica, a te che musica piace ascoltare?

«Questa è una domanda alla quale non ti so rispondere bene. Mi rimprovero sempre di avere poco tempo per l’ascolto. Finisco per ascoltare quasi sempre quello che mi piace e che ho già ascoltato. Provo sempre a stimolare la ricerca negli altri, ma mi regalo poco tempo per ricercare io. Ascolto molto musica italiana, molto pop e provo a farlo studiandolo. Cerco di capire quello che mi fanno ascoltare i ragazzi e quello che va per la maggiore e, quindi, comprendere i fenomeni. Mi serve più come studio che come voglia di staccare il cervello, una cosa che invece dovrei imparare a fare».

Alla fine, però, così diventa sempre lavoro…

«Eh, è proprio quello che mi tiene in analisi da sei anni … Capisci perché l’album non poteva che chiamarsi TeRAPia?».

Una TeRAPia, quella proposta nelle 14 tracce da Picciotto, che apre a molte riflessioni, che pone domande e fa cercare le risposte. Una TeRAPia di cui, oggi come non mai, abbiamo bisogno tutti.

TRACKLIST

  1. Illusione (prod. Gheesa)
  2. Come stai feat. Dj Delta (prod. Naiupoche)
  3. Hashtag la victoria feat. Shakalab & Roy Paci (prod. Naiupoche)
  4. Capitale feat. Gheesa
  5. Come non ho fatto mai (prod. Bonnot + Naiupoche)
  6. Oshadogan (prod. Naiupoche)
  7. Lividi feat. O’Zulù & Davide Shorty (prod. Bonnot)
  8. Ancora vive feat. Simona Boo (prod. Bonnot)
  9. D’amore e d’accordi (prod. Naiupoche)
  10. Da grande – Rap Neomelodico feat. Enzo Savastano (prod. Naiupoche & N’Hash)
  11. Sogno vs Incubo (prod. Gheesa)
  12. Colloquio (prod. Dj Spike)
  13. Terapia Popolare (pro. Gheesa)
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