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Polaroid e ricordi dal fondo del cassetto. Personale lettura del nuovo album di Bruce Springsteen

Polaroid e ricordi dal fondo del cassetto. Personale lettura del nuovo album di Bruce Springsteen. Quando uscì “Tunnel of Love“, avevo già tutto quello Bruce Springsteen aveva pubblicato ufficialmente, compresi i 45 giri scartati da Born in the USA, un numero sconsiderato di bootlegs dal vivo e un paio di costosissimi box quadrupli che racchiudevano decine di canzone registrate in studio e mai finite sugli album (Lost Masters, Unreleased Outtakes).

Di “Tunnel of Love” mi deluse la copertina, troppo distante dall’idea di Rock che avevo, ma il disco era grandioso e lo è tutt’ora. La prima vera delusione arrivò con “Human Touch/Lucky Town”, due album deboli in confronto ai precedenti otto capolavori.A partire dal 1995 io e il mio amico Massimo, decidemmo di darci un appuntamento fisso, tra i tanti che ci davamo: prendere un pò di birre e ascoltare insieme ogni nuovo disco del Boss.”The Ghost of Tom Joad” risvegliò i morti. Un disco di una bellezza sconfinata. Poi ci fu l’11 settembre, ritornò la E Street Band, uscì “The Rising”, con tante buone canzoni e altre trascurabili, come sarebbe stato per il resto degli ultimi 20 anni: “Devils and Dust”, “Magic”, “Wrecking Ball”, “Western Stars”, che scorrono via tra alti e bassi, ad eccezione dell’ottimo “Seeger Sessions”.

Anni di ascolti, ore di discussioni, concerti dal vivo, viaggi notturni, amicizia, amore, delusioni, conquiste, costruzioni di mondi più o meno stabili. Così è stato per tanto tempo, così è stata per me la musica di Bruce Springsteen.Ieri ho ritirato il vinile allo Sky Stone, ho preso un paio di birre, ho messo le cuffie e mi sono messo ad ascoltare.Massimo non c’è più, perché la vita è una merda. Anche questo, in qualche beffarda maniera, ha a che fare con la musica di Bruce: vita, sorrisi, vuoti, lacrime.C’è già una cosa che ti preoccupa, lo hai letto, lo sai da giorni. Nella scaletta del disco ci sono tre canzoni di quei “Lost Masters” che tanto ci hanno fatto viaggiare. C’è “Song to Orphans”, che da sola basterebbe a segnare la carriera di una qualsiasi band che accende un amplificatore. I giornali lo hanno scritto, Bruce l’ha tirata fuori dal cassetto dopo anni e anni. Era il 1972.Così, mi accingo a fare quello che non andrebbe mai fatto: scrivere le mie prime impressioni del disco, a ruota libera e senza paracadute.

Non importa, mi prendo il rischio e le responsabilità.

Il mio amore per Bruce resta comunque incondizionato.”Letter to You” parte bene.

“One minute you’re here” è una di quelle ballate che Bruce sa scrivere ancora, una sorta di ritorno a casa. O meglio, c’è Bruce che apre la porta di casa, passi la veranda e sei dentro.

La canzone “Letter to you” è il primo singolo uscito qualche settimana fa, inizia come “Restless Night” o come una delle tante B-side di “The River”. La E Street Band picchia forte con le chitarre, l’hammond e il pianoforte di Roy Bittan in primo piano. Vuoti e pieni, la E Street Band in piena forma.

“Burning Train” è una buona canzone Rock che fa il suo. Il suono è asciutto e fortunatamente, almeno in questo disco, la mano pesante del produttore Ron Aniello non si sente.

“Janey needs a Shooter”, è la prima dei tre classici ripescati e che oggi trovano una nuova veste. Bella, non poteva non esserlo. Di nuovo l’hammond, il piano, l’armonica e la batteria di Max Weinberg, che suonano come fossero da qualche parte nel 1978.

“Last Man Standing”è la canzone che probabilmente ha dato il via a questo disco. La morte dell’ultimo componente del primo gruppo di Bruce, The Castiles, ha aperto un percorso di ricordi di una vita. Ricordi sbiaditi che riaffiorano, la vita di un gruppo di ragazzi che si ritrova in una band, dove si stringono i legami e si rafforzano le amicizie, mentre nel ritornello risuona l’amara consapevolezza di essere l’unico del gruppo ad essere ancora vivo.

“The Power of Prayer” una breve introduzione di piano, poi la batteria entra piena, quel suono inconfondibile, come il sax di Jack Clemons, che ricorda quello dello zio, l’indimenticabile “Big Man” Clarence Clemons.”House of a Thousand Guitars”, ancora un testo che riporta alla rilettura degli anni dell’inizio della band, un’altra gran bella canzone, felicemente nostalgica. Il disco comincia a prendere forma, “The River” è il riferimento o prova ad esserlo.

“Rainmaker”, lo sguardo si sposta a oggi, ai troppi spacciatori di false illusioni, fabbricatori di pioggia e disgrazie :”Rainmaker take everything you have/Sometimes folks need to believe in something so bad, so bad, so bad”.

Di questi tempi non è difficile immaginare a chi sia indirizzata la canzone. Una delle migliori del disco, con un bridge che ti ricorda di cosa è capace Bruce Springsteen.”If I Was the Priest”, lontanissima dalla versione al piano dei primi anni ’70, è diventata una canzone che si adatta bene al suono del nuovo album. Una canzone che mostra quanto Dylan c’era nei testi e nelle melodie del giovane Bruce. Solida, bella, con una super E Street Band. Grande canzone.

“Ghost”, secondo singolo e ancora chitarre in evidenza su un 4/4 classico. Una canzone sul convivere ogni giorno con i fantasmi degli amici andati, consapevoli di quanta bellezza abbiano lasciato dietro, che è poi il tema centrale dell’intero disco. Il rimpianto di non poter vedere a breve il tour di un album così potente, comincia a farsi avanti.

“Song for Orphans”: Fanculo Bruce. Hai vinto.Sei minuti assoluti dove tutto ti passa davanti. “Well the multitude assembled and tried to make the noise…”.

E’ da queste parti che sta quell’inspiegabile mistero del Rock and Roll che ti fa tremare come fosse la prima volta di tutto.Sarà che di questi tempi, a vario titolo, siamo tutti orfani di qualcuno o di qualcosa, saranno le esperienze personali, ma questa, più dylaniana di Dylan, è una canzone enorme come una montagna.

“Song for Orphans” è dieci gradini sopra tutto il resto del disco. Su nell’Olimpo dei capolavori. Grazie Bruce. Cheers!

“I’ll see you in my dreams” chiude spiritualmente il disco.Il disco è probabilmente il migliore da tanti anni a questa parte, registrato nello studio di casa Springsteen, in soli quattro giorni, dal vivo e senza particolari sovraincisioni. Quando hai la E Street Band che scalpita nella stanza, la cosa migliore è aprire le porte e lasciare liberi i cavalli.

Il mio debito di riconoscenza nei confronti di Bruce Springsteen è eterno e senza prezzo, mai mi permetterei di giudicare un nonnulla di quanto fatto e scritto da lui, il Boss, eppure c’è una considerazione da fare: le migliori canzoni del disco sono quelle dei primi anni ‘70.

Per quasi 20 anni di carriera, da “Greetings from Asbury Park” fino a “Tunnel of Love”, Bruce non ha sbagliato niente, ha saputo penetrare la notte come pochi sanno fare.So bene che le cose cambiano, ed è sempre sbagliato cercare qualcosa che non può più essere. Ma in questa viaggio che ci porta alla rilettura del suo passato, Bruce si mette con grande onestà, a nudo, davanti all’implacabile realtà e ai paragoni. E la distanza tra quello che era un tempo e quello che è adesso, è siderale.Bruce Springsteen ha abitato a lungo nella Tower of Song, cantata da Leonard Cohen, a cui a pochi è concesso entrare.

Quel grattacielo artistico, quell’attico della creazione da cui oggi vengono ripescate le tre vecchie canzoni degli anni ’70. Un’operazione che schiaccerebbe chiunque all’angolo.Eppure nonostante tutto, le cose funzionano. “Letter to You” è un disco di un gruppo di amici che continua con onestà a fare della buona musica.

Quello è il loro territorio comune di oggi.Il rischio è che col tempo un disco del genere, nella sua urgenza, rimanga in superficie, senza mai varcare quell’indefinito confine tra il buio e la luce, quei territori oscuri, quegli angoli misteriosi dell’esistenza che Bruce ha sempre saputo implacabilmente raccontare.

Probabilmente è negli intenti dell’autore consegnarci un disco di canzoni nate per divertire e intrattenere. Un disco di foto consumate dal tempo, polaroid sbiadite e ricordi malinconici da condividere una sera con gli amici di sempre, in quella falsa promessa di eterna giovinezza che è il Rock and Roll. Un sogno, un’ accattivante bugia a cui è bello continuare restare attaccati.

Per guardare la bestia negli occhi, pochi mesi fa, coi 17 minuti di “Murder Most Foul”, Bob Dylan e’ sceso giù al centro della terra, vestito da minatore con tanto di piccozza e stivali, ha scavato nel fango, nella carne, nella roccia, indifferente alla tempesta che fuori stava infuriando.Diversamente, Bruce ha richiamato i suoi amici della E Street Band per cantare il dolore e lo smarrimento, la bellezza e la magia del viaggio a cui siamo tutti chiamati a partecipare.Non osi chiederlo nella tua vita adulta, eppure quando ascolti “If I was the Priest” o “Song for Orphans”, intimamente sai bene che è quello di cui hai bisogno.

Qualcosa che non c’è più, ma che è stato.Mettiamola così, è una fortuna aver potuto vivere qualcosa del genere. Una benedizione aver potuto percorrere un tratto di strada insieme, quella che va dal Greasy Lake nel New Jersey ad un laghetto sperduto nel nulla della campagna toscana. Lo sapevi allora e continui a sentirlo oggi.

(per Massimo Pippolini e Andrea Ariani)

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