Quest’anno, per la prima volta dal 1988, ho saltato il tour italiano di Bruce Springsteen.
Una scelta forzata dovuta a una complicata operazione (con esito fortunatamente positivo) che mio cugino Piero, nonché compagno di 27 concerti di Bruce, ha dovuto fare a Milano proprio il giorno in cui il Boss suonava al San Siro.
Chi segue Bruce Springsteen sa bene quale turbinio di sensazioni si scatenano ad ogni suo suo concerto, quali misteriosi intrecci emotivi si vanno a creare ascoltando le storie dei personaggi delle sue canzoni; gioia, stupore, rabbia, riscatto, orgoglio, divertimento ed esagerando anche uno strano senso di comunità e di amicizia.
Per questo, senza alcun rimpianto, avevo deciso che quest’anno, senza Piero, non avrei visto nessuno dei concerti italiani di Bruce, onde evitare di sentirmi una merda, nel caso avesse suonato canzoni come “Backstreets”.
Poi, succede che a volte la vita ti sorprende.
A fine agosto mi trovavo a New York in vacanza e aprendo il giornale scopro che Bruce Springsteen, due giorni dopo, avrebbe suonato al Metlife Stadium a East Rutherford nel New Jersey.
Bruce a casa sua nel New Jersey, a mezz’ora di autobus dal mio hotel!
Ora chi non segue Bruce Springsteen, probabilmente (e giustamente) mi potrà prendere per fanatico, ma un suo concerto nel New Jersey non è uno dei tanti concerti ma IL concerto.
Il New Jersey si trova al di là del fiume Hudson, considerato un po’ il figlio minore o il fratello sfigato di New York, un grande polo industriale che negli anni attirò italiani, irlandesi, polacchi e chiunque cercasse un lavoro e prezzi immobiliari decenti.
Con una affascinante operazione poetica, Bruce Springsteen, nei suoi primi album degli Anni ’70, riuscì a rendere quel posto dimenticato da Dio, un grande set cinematografico dove far muovere i suoi personaggi e intrecciare le sue storie di vita, tanto reali da rendere familiare e universale quello che in realtà non era.
Così la New Jesrsey Turnpike, Asbury Park, il Greasy Lake, Little Eden, la newyorchese Exxon sign, la 10th Avenue o la 57th Street diventarono, nell’immaginario di un certo rock, un grande universo geografico, dove tutto nasceva e moriva, dove si consumavano storie d’amore o violente lotte tra bande criminali, dove gli italiani incrociavano i neri, il Rock&Roll incrociava il Rhythm&Blues, dove i ragazzi sognavano di fuggire e la città sembrava essere una grande giungla d’asfalto e di perdizione.
Di fronte a tutto questo non mi restava altro che telefonare a mio cugino per avere la sua approvazione.
“Carlo sei una merda…come fai a non andare? Fanculo!”
Ricevuta l’approvazione mi sono lanciato all’acquisto dei biglietti a prezzi fantasmagorici.
Mai e poi mai avrei immaginato che tipo di concerto aveva in serbo per noi quella sera il Boss.
Ma prima di parlare del concerto è giusto raccontare il diverso approccio che gli americani hanno ai concerti in uno stadio.
Scesi dall’autobus che dalla 42nd Street ci aveva portato nel New Jersey, nel parcheggio dello stadio ci siamo trovati davanti una distesa di tende, barbecue, salsicce e birra, macchine che sparavano musica a tutto volume, ragazzi che giocavano ad uno pseudo baseball e anziani che cercavano di tirare fino a sera nella speranza di non morire prima del concerto.
Un immenso e straniante luna park di appasssionati di Rock.
Tre/quattro generazioni di newyorchesi e gente del New Jersey che si accingeva a salutare l’eroe locale, il diabolico e talentuoso figlio del New Jersey che da lì era partito per la conquista del pianeta.
Cose che in Europa non si vedono, qualcosa di così eccessivo e americano a cui noi non siamo abituati.
D’altro canto, rispetto ai concerti europei, è il senso di sicurezza e di organizzazione a rendere piacevole un concerto lì, più o meno come andare a teatro o al cinema, senza fare file interminabili, senza doversi fare spazio a gomitate per un proprio spazio vitale.
Bruce è salito sul palco alle 20.30 nel delirio generale ed è sceso 4 ore e 1 minuto dopo.
Non è tanto la lunghezza del concerto ad aver reso straordinaria la serata, ma piuttosto la scelta delle canzoni. Un viaggio dall’inizio della storia musicale di Bruce, un viaggio nel New Jersey e per il New Jersey, una grande storia tra 70mila amici.
Era il primo concerto di Bruce Springsteen per i miei due figli e
una partenza migliore non avrei potuto immaginarla: ‘NEW YORK CITY SERENADE’, con la sezione dei violini e la storia di Billy e Diamond Jackie in cerca di uno spacciatore a Broadway o forse in cerca di vita, di un bluesman o di qualcosa di più profondo della morte stessa.
‘BLINDED BY THE LIGHT’, il primo singolo della carriera, quando Bruce inseguiva Dylan e le visioni si srotolavano sui marciapiedi
‘DOES THIS BUS STOP AT 82nd STREET’ ancora dal primo album, un altro un viaggio sulle strade della grande mela dove si incontrano i duri, i santi o i criminali, dove si balla come Casanova e ci si muove come Marlon Brando. Il micidiale immaginario cittadino alla Martin Scorsese di ‘IT’S HARD TO BE A SAINT IN THE CITY’.
Per dirla tutta, sarei potuto andare via in quel momento, già abbondatemente ripagato e invece: ‘Can you feel the spirit?’ urla Bruce.
La notte è ancora lunga nel New Jersey e c’è sempre tempo per fare un salto al Greasy Lake con Crazy Janey, Hazy Davy e Killer Joe inseguendo fantasmi nella notte (SPIRIT IN THE NIGHT) o ballando nell’afa estiva come Elvis o Eddie Cochran.
E poi dopo SUMMERTIME BLUES eccola: ‘SANDY’.
Ed è lì che il mio piccolo cuore si è spezzato.
Inaspettata, tante volte sognata, ‘Sandy’ è arrivata potente dal passato, viva e dolcissima.
La fisarmonica, il boardwalk di Asbury Park, le silly New York Girls urlanti che si sbottonano i jeans, le promesse, l’innocenza e il desiderio, i coltelli che volano sotto le luci di Little Eden.
Una vita di ascolti notturni di bootlegs mi è passata davanti in quei 6 minuti di canzone.
-“Anna, il babbo piange!”
-“Babbo che fai piangi? Hai le lacrime, ma…”
(Love me tonight and I’promise I’ll love you forever)
– “Si bimbi piango, la vita è meravigliosa.”
E’ impossibile andare avanti a raccontare 4 ore di concerto.
‘KITTY’S BACK’, ‘INCIDENT ON THE 57th STREET’, ‘JUNGLELAND’, ‘CANDY’S ROOM’, ‘SHE’S THE ONE’, ‘BECAUSE THE NIGHT’, la leggerezza divertita di 5 canzoni da Born in the Usa, ‘HUNGRY HEART’, ‘ATLANTIC CITY’, ‘BORN TO RUN’, ’10th AVENUE FREEZE OUT’, ‘ROSALITA’: tutto lì: somewhere in the swamps of Jersey.
Chi conosce Bruce Springsteen sa bene di cosa sto parlando.
La band suonava precisa e potente come dei ventenni arrapati, il pubblico in fiamme e il Boss a fare il Boss sotto i fuochi d’artificio in chiusura di ‘JERSEY GIRL’, perché anche Tom Waits non poteva mancare in quella serata al di là del fiume, al di là del ponte che guarda Manhattan.
Ed io lì, con gli occhi splendenti e meravigliati a guardare la mia famiglia e i miei amici ballare, divertiti e sudati, gioiosi e molto, molto più ricchi.
Once again, thanks Bruce for your music.
Carlo Puddu
[foto: cbsradionews]