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I primi 40 anni del primo album da solista di Peter Gabriel [video inside]

Era il 25 febbraio 1977 quando uscì un album ‘senza nome’. O meglio: il nome c’era ed era quello dell’artista che lo aveva prodotto, Peter Gabriel.
Un album importante, poiché rappresenta il primo passo ‘da solo’ di un artista che, fino all’abbandono, era stato visto ‘solo‘ come il frontman e il leader dei Genesis.
Eppure, con quel lavoro, Gabriel ha dimostrato al mondo di poter avere una sua identità artistica, del tutto diversa rispetto a quello che era stato l’esordio e il successo con i Genesis.

Dopo il successo di ‘The Lamb Lies Down On Broadway’, nel 1974 Gabriel annunciò agli altri membri della band di voler lasciare i Genesis. Abbandono che si concretizza solo nel 1975, quando, con una lunga lettera al Melody Maker, spiega ai fans le ragioni di questa scelta. Ragioni che, con il tempo, si comprenderà essere legate soprattutto al voler avere una maggiore indipendenza personale in modo da aver più tempo da dedicare alla famiglia, ma probabilmente anche artistica.

Oggi, commentando l’uscita del disco, sulla propria newsletter, Gabriel dice: «Questo album è stato il mio primo passo come artista solista, il primo passo lontano dall’essere parte di una band. Non ero sicuro di quello che avrei o non avrei potuto fare e così arrivarono alcuni musicisti scelti da Bob Ezrin (il produttore del disco, ndr), tra cui Tony Levin e invitai Robert Fripp e Larry Fast per riuscire a raggiungere alcuni miei obiettivi sonori. Sebbene sia stato registrato in un paio di settimane nevose a Toronto, mi ricordo che le sessioni di registrazioni erano molto rapide, eccitanti e calde. Molte tracce vennero realizzate live, lavorando con la limitazione di una macchina per registrare a 16 tracce. E’ stata una sessine molto divertente, intensa e in qualche misura spaventosa, con una grande band, che successivamente è venuta in tour con me».

La casa discografica che ha scommesso a quell’epoca sul Gabriel solista, la Charisma Records, lanciò uno slogan che accompagnerà sempre il musicista: ‘Expect the Unexpected’, un motto che alla fine ha sempre caratterizzato la carriera di Peter Gabriel, fino ai giorni nostri, quando sta collaborando con chiunque, ma non riesce a mettere a punto un nuovo disco suo dal 2002.

Nel 1977, comunque, Gabriel stava ricalibrando il suo posto nel panorama musicale e la stampa decise di seguire la stessa strada nel seguire il suo ritorno sulle scene, dopo gli anni di ‘buen retiro’ nella campagna inglese.
L’album portava il solo nome dell’artista – come anche quelli successivi – perché, nell’idea dell’artista, i dischi dovevano essere come un magazine, al quale si cambia la copertina, ma non il titolo. Una scelta che parzialmente lo penalizzerà soprattutto sul mercato americano, dove il pubblico è abituato ad avere titoli di riferimento e, infatti, gli album prenderanno il titolo dell’immagina rappresentata: in questo caso ‘Car’, dall’auto nella quale Gabriel è fotografato.

L’album è molto lontano dalle sonorità dei Genesis, sebbene qualche brano ricordi il passato ancora troppo recente per essere completamente seppellito. In particolare in ‘Moribound The Bourgermeister’ o in ‘Down the Dolce Vita’. In questo album fa anche la sua prima apparizione Mozo, quel personaggio la cui storia si dipana disco dopo disco fino a ‘So’, senza mai arrivare a una reale conclusione, perdendosi infine nella pioggia rossa del primo album che aveva un titolo e datato 1986.

Tra i brani più significativi e che accompagneranno per tutta la carriera Gabriel, sicuramente c’è ‘Solsbury Hill’, che non manca mai dal vivo e una menzione speciale merita ‘Here Comes the Flood’ che, in quest’album troviamo con un’orchestrazione molto ‘sinfonica’, voluta dal produttore Bob Ezrin, ma che, successivamente Gabriel dirà di non apprezzare e di preferire la versione più ‘minimal’, realizzata assieme a Fripp e che, negli anni a venire, diventerà una canzone per solo piano e voce. Sebbene la suggestione che riesce a trasmettere la versione per voce e piano di questo brano – peraltro uno della saga di Mozo – sia unica e irripetibile, la versione ‘sinfonica’ di quanrant’anni fa è senz’altro da apprezzare e, forse, riscoprire.

Sempre dalla newsletter di Gabriel si legge che l’album per l’artista ha rappresentato un’opportunità di fare le cose in maniera diversa: «In particolare volevo andare avanti, oltre quello che era stato il mio passato – disse in un’intervista del 2002 -. Volevo che il mio primo disco da solista fosse diverso rispetto a quello che avevo fatto con i Genesis, così decisi di fare cose diverse e utilizzai stili diversi. Un po’ di barbershop (in Excuse Me, ndr), nel quale venni aiutato da Tony Levin, ci sono suoni blues, arrangiamenti e canzoni molto diverse tra loro: stavamo coscientemente cercando di fare qualcosa di diverso dal passato».

L’album, quindi, rappresentò l’inizio di una nuova fase della vita creativa di Gabriel, un’opportunità di essere padrone del proprio destino ed essere rispettato come autore e artista. «Mi ci sono voluti tre album per prendere fiducia e scoprire che potevo fare quello che mi rendeva differente dalle altre persone. E il primo disco fu veramente un processo di prova».

Anche prima che l’album fosse pubblicato, Gabriel espose l’importanza sia della scrittura dei testi, sia la sua ambizione di sviluppare la presentazione anche visiva della sua musica e, ovviamente, la voglia e il desiderio di sperimentare. Sebbene negli ultimi 40 anni molte cose siano cambiate, alcune cose, invece, restano delle costanti.

TRACKLIST

  1. Moribund The Burgermeister
  2. Solsbury Hill
  3. Modern Love
  4. Excuse Me
  5. Humdrum
  6. Slowburn
  7. Waiting For The Big One
  8. Down The Dolce Vita
  9. Here Comes The Flood

 

@fedisp

2 pensieri su “I primi 40 anni del primo album da solista di Peter Gabriel [video inside]

  1. Buonasera mi piacerebbe sapere i musicisti che hanno inciso nel 1977 Here Comes The Flood alla batteria sembra esserci Phil Collins, è una versione che adoro, quella solo piano è altrettanto bella ma apprezzo quella da studio, PG no ma è carica di emozioni…grazie

    1. Ciao!
      No, non è Phil Collins, ma Allan Schwartzberg: per quell’album, Gabriel decise di avvalersi solo di musicisti ‘tournisti’, quelli cioè che fanno i tour con i musicisti e, per la prima volta, collabora con Tony Levin o con Larry Fast, che, negli anni a seguire, saranno suoi stretti collaboratori. Per Levin la collaborazione dura tuttora.
      Anch’io, personalmente, preferisco la versione ‘su disco’, sebbene sia immensa la magia di quella ‘solo piano’, ma quella su disco, la preferisco.
      Grazie a te,
      Federica

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